domenica 10 agosto 2014

Euro sì euro no: un dialogo fra due economisti



In seguito al mio pezzo su il manifesto di giovedì un collega economista vicino alla sinistra mi ha inviato le sue reazioni da cui è nata una conversazione via e mail che gentilmente ha acconsentito di pubblicare qui sul blog. Gli ho lasciato l'ultima parola, e non aggiungo ulteriori commenti, poiché credo che i lettori abbiano elementi a sufficienza per farsi una opinione propria. L'interlocutore, per scelta, ha lasciato un indizio finale sulla sua identità. Forse ci sarà comunque un seguito più pubblico su il manifesto. La revisione dei testi è stata minima.




Interlocutore
Devo dire che non sono d'accordo con le conclusioni dell'articolo di Sergio uscito stamane (8 agosto) sul Manifesto, e a dire il vero neppure con la premessa iniziale, ma tra il capo e la coda vi
sono argomenti condivisibili ed anche argomentazioni mancanti, ....
Ma non è questo il punto ora, spero di avere modo di discuterne poi.
Volevo però suggerire questo articoletto di Carlo Clericetti, “Draghi straparla, i governi stanno zitti”. Carlo è un giornalista molto saggio che scrive cose argute: le sue conclusioni non le sposo, ma sono in linea in parte con quelle di Sergio, quindi segnalo il pezzo qui.

Cesaratto
vorrei chiarire che io non condivido lo slogan "usciamo dall'euro" (per cui il titolo del manifesto era fuorviante), ma (a) penso che fuori dall'euro si starebbe assai meglio e (b) penso possibile una
situazione emergenziale in cui non resti che uscire (a meno di accettare assurde cessioni di sovranità alla Troika in cambio dell'OMT). A quel punto può darsi che l'Europa accetti quest'esito
come l'unico possibile per l'Italia. In verità non ho né certezze né speranze. L'unica cosa a cui non credo - e reputo ingenui, ad essere benevolo, coloro che ci credono - è che l'Europa possa cambiare.


Interlocutore
Cari tutti, se io parto dalla ferrea convinzione che l'Europa non possa cambiare, o non si ravvedi (se mi chiedete comunque di scommettere sul ravvedimento, declino l'invito) non rimangono che due opzioni
1. moriamo di Europa o comunque stagnazione e lento declino per
anni
2. meglio uscire ora e minimizzare le perdite, che uscire tardi e
Massimizzando le perdite (ed il referendum non servirebbe a nulla che darebbe
fiducia dove fiducia non dovrebbe esservi).
-Ma dato che sia (1) che (2) non sono da me gradite (non credo che
senza euro si stia meglio e non mi rassegno al declino) non mi resta che sperare che la premessa sia errata. Se invece alla premessa ci credessi, allora dovrei lavorare per uscire dall'euro senza tanto tergiversare. E’ ovvio come io la pensi, ma se la pensassi come Sergio, perché mai dovrei tergiversare? Od in altre parole, perché Sergio tergiversa?
Tergiversare è ad esempio spendersi per  il referendum sul pareggio di bilancio, perché cosi facendo rivelerei di credere che l'Europa possa cambiare, cosa che contraddice la premessa. C'è qualcosa di errato nella mia logica? Forse l'improvvisa ripresa (è arrivato il caldo) di cui parla il meteorologo Renzi mi confonde la mente?

Cesaratto
Il mio interlocutore mette il dito sulla piaga. Vero, io non ho speranze nell'Europa in virtù di un sano realismo politico (per contro gli europeisti compresi quelli critici mi sembrano di un deleterio utopismo). Credo inoltre che fuori dell'euro staremmo meglio, assomiglieremmo un po' all'Argentina e dunque dovremmo comunque "darci una regolata" (disciplinarci un po'), comunque sopravviveremmo.
Perché allora non schierarsi con quelli £fuori dall'euro"? 1) perché non hanno speranza politica; 2)perché una rottura unilaterale, ammesso che possa avvenire, ci esporrebbe a ritorsioni.
(Comunque un referendum non si può fare. Com'è noto di euro sì euro no non se ne può discutere serenamente senza che i mercati si scatenino laddove l'opzione exit fosse all'ordine del giorno) Solo dunque una situazione traumatica in seguito ad un drammatico aggravamento dei problemi (spread di nuovo alle stelle, annuncio della Troika, Pil che continua a scendere) può forse rendere l'UE consapevole che l'Italia ha bisogno di uscire per sopravvivere, recuperando un cambio minimamente competitivo in primis.
Operativamente, se almeno la Lista Tsipras avesse avuto una piattaforma in cui si fosse detto o si cambia o meglio una rottura consensuale sarebbe stato un passo avanti. Invece ci è stato propinato un piagnucoloso europeismo di sinistra fatto di tante belle intenzioni (alla Social Europe e omologhi italiani per
capirci).

Naturalmente non ho certezze. Fuori dall'euro comunque si dovrebbe stare in un sistema di cambi fissi (anche se aggiustabili) con i paesi euro. Però forse una cambiamento del paese sarebbe possibile in un clima di almeno leggera crescita. Nel nome di un sano realismo sono persino indotto ad accettare l'idea che non c'è altra via che stare nell'euro. Ma allora mi sembrano sciocchezze minori quelle di Renzi di pensare di cambiare il paese dell'infantilismo di chi pensa che davvero l'Europa possa cambiare (c'è anche molto opportunismo in questo, è assai utile per ingraziarsi i Vendola, Cuperlo e compagnia cantando).

Interlocutore
Sergio ha contribuito a chiarire la sua posizione, la capisco ma non mi convince.
L'esito che lui prospetta è chiaro, ma a quale prezzo lo si raggiunge? Troppo alto per me, in termini di effetti della crisi quasi sistemica che sono sempre peggiori per chi già sta pagando. Ora poi se saltasse l'Italia dall’euro, crediamo che il resto possa rimanere tale? Fuori l’Italia, nulla cambierebbe? Io non credo. Poi neppure credo che avere nostra moneta sia condizione per fare quei cambiamenti che dovremmo fare, anzi il passato ci insegna che la gestione della valuta ha consentito alle classi dirigenti industriali di mantenere le loro posizioni di rendita, e nulla hanno fatto, o poco o nulla, per competere se non sui costi, con il risultato in cui siamo ora.
Mi iscrivo invece tra gli utopisti europeisti e credo che questi siano cosa ben diversa da Renzi ed i suoi farlocchi progetti, per tattica e strategia. Ci sono cose che si potrebbero fare e che Renzi non intende fare, senza aspettare il fatidico “shut down” dopo il quale io non riesco a vedere le prospettive che vede Sergio. Ma anche io non ho certezze, può del tutto essere che si arrivi alla fase finale con il collasso, ma nel frattempo preferisco lavorare – proprio perche' non ho questa certezza - perché il collasso non si realizzi e qualche cambiamento si realizzi.

Cesaratto
Disturbo ancora i nostri amici solo per una puntualizzazione. Il mio interlocutore fa un errore grave e significativo quando scrive "neppure credo che avere nostra moneta sia condizione per fare quei cambiamenti che dovremmo fare, anzi ...": dal gold standard si uscì perché incompatibile con la democrazia (Eichengreen e, direi, Keynes), ovvero con la dialettica democratica sulla distribuzione del reddito. Ucciso la moneta sovrana hai ucciso la democrazia economica (dunque sostanziale). Vedi a proposito anche uno che non amo (al pari di tutti i neoclassici radical e di quelli senza teoria),Rodrick, sistemi di cambio fissi e democrazia sono incompatibili e infatti, guarda ciò che sta accadendo...

Interlocutore
Sul tema democrazia concordo, ma non in modo massimalista. Sarei più flessibile.
Ma il mio punto è un altro: la flessibilita' del cambio con la svalutazione è stato lo strumento post anni settanta per non fare le riforme da parte della nostra industria ed il nostro capitalismo, che ha vissuto con le svalutazioni della moneta. Se ritornare al cambio flessibile significasse tornare a quel modello, direi no grazie, non è un modello per il quale il lavoro ci ha guadagnato. Vero che oggi il modello è quello delle svalutazioni interne ed il lavoro pure ci perde assai. Ma non è con il ritorno all'altro precedente che ne usciamo.
Poi la praticabilità' della tua opzione io non la vedo, quella dell’uscita intendo.
Preferisco molto più lo schema che propone XXX che è quello su cui io scrivo da anni venendo anche criticato – erroneamente - per proporre tesi produttivistiche. La questione è che nella manifattura io ci conto ancora e nell'integrazione con i servizi via un mutamento strutturale.
Il dibattito sulla moneta in termini di “euro si euro no” non mi affascina molto, o meglio non vedo lì la soluzione dei nostri problemi.
Sbaglierò forse ma ancora devo trovare qualcuno che mi convinca del contrario. Ma forse come tanti sono prigioniero del mio passato.
Ad esempio oggi (9 agosto) sul Manifesto riappare la tesi della stagnazione vs. crescita. Articolo interessante, ma a me fa lo stesso effetto di chi parla in modo ciclico della fine del lavoro come esito certo dello sviluppo tecnologico. Tesi che spesso ho ritenuto inconsistente.

Cesaratto
negli anni settanta con la flessibilità del cambio i salari non ci perdevano (Stirati credo confermerebbe). Credo che il mancato decollo tecnologico dell'industria italiana dati al crollo degli investimenti dopo il primo ciclo di lotte operaie. Ma concordo con te che la borghesia italiana non è stata capace di rispondere alle rivendicazioni sociali in maniera socialmente e industrialmente positiva, e senza far crescere una sinistra italiana di stampo socialdemocratico.
Quanto alle politiche dal lato dell'offerta, buona fortuna.
Personalmente preferirei far sopravvivere l'industria che ho con i mezzi sicuri che conosco invece di farla morire così crogiolandomi magari con l'industria verde. Mi sembra, caro interlocutore, che tu reagisca talvolta come quelli che Bagnai efficacemente ha definito i piddini:
"io? no, gli anni '70 mai!". Ma magari ci si potesse tornare!
Circa la decrescita, sono pure un po' peggio degli europeisti di sinistra,ma è una bella gara.

Interlocutore
Forse negli anni '70 e pure prima c'era un sindacato e questo sino agli anni '80 una certa influenza l'ha avuto nella distribuzione del reddito; non credo che sia questione solo di moneta.
Sulle questioni offerta e domanda, please non mettermi tra gli offertisti (poi quali? ci sono offertisti ed offertisti); Ho gia' risposto a Michele Salvati tempo addietro su questo.
Industria verde? Sì lo ammetto, fa parte dei cambiamenti strutturali che ritengo essenziali.
Ho una impressione, potrei sbagliare, ma se l'approccio è quello di demolire .. alla fine cosa ti rimane se non le macerie .. con cosa difendi l'industria che rimane? Quali sono gli strumenti di difesa di questa industria?  Solo ed unicamente le politiche macro? La moneta ed il cambio?
Non so, potrei sbagliare ma mi sembra un po' poco ...
Ma forse è proprio l'approccio che non mi convince, ... non vedo la difesa come modo per agire; piuttosto preferisco il cambiamento. Perché dovrei difendere l'industria che c'è e fa un cattivo servizio? ... Meglio sostituirla con altro.
Ed allora servono politiche macro e micro assieme, domanda ed offerta non sono sostituti, son parte del cambiamento strutturale.

Ho avviato questa discussione per provare a gettare dei ponti, anche provvisori, delle funi di raccordo, ma mi pare che non sia facile, prevalgono forse delle prospettive differenti, oppure degli approcci differenti? Se non dei paradigmi diversi?
Bagnai non l'ho citato prima di proposito: più che nel merito, nel modo mi risulta urticante; è quel modo che i ponti e le funi appena tu li getti, contribuisce a disfarli. Cosi facendo, si va poco avanti, io credo.
Occorre costruire più che demolire, o come direbbe meglio Riccardo Lombardi ricostruire la casa senza demolirla, se ci vivi dentro. Non a caso in quel pezzo su eep ho inserito quella citazione, era appropriata e lo è anche qui io credo.

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