mercoledì 7 maggio 2014

Un obiettivo ragionevole



 Articolo su l'Unità con Turci che riprende quello di qualche giorno fa su E&P.

Riprendere la crescita stabilizzando il debito
Sergio Cesaratto e Lanfranco Turci
Nel recente DEF si ammette che la crescita italiana sarà assai debole nel 2014, peccando probabilmente di qualche ottimismo. Le previsioni per gli anni successivi sono più rassicuranti (dall’1,3% del 2015 all’1,9% del 2018), ma la giustificazione economica dell’ottimismo è ridotta a una paginetta in cui non si dimostra da dove tale ripresa dovrebbe provenire – a parte il generico richiamo a una generale ripresa dell’economia globale. Né grandi rassicurazioni provengono dagli effetti delle “riforme strutturali” illustrati nell’allegato Piano Nazionale di Riforme che ipotizza effetti cumulativi sul Pil in aggiunta allo “scenario base” che vanno dal +0,8% nel 2015 sino al +2,4% nel 2018.
Le stime degli effetti delle “riforme” sono ottenute con metodi piuttosto opinabili e nella maggior parte dei casi le passate previsioni sono state non solo smentite, ma rovesciate come dimostrato da un prezioso studio di Maurizio Zenezini dell’Università di Trieste pubblicato da Economia e società regionale (13/2 2013), rivista legata all’IRES-CGIL veneta, dedicato a “Le riforme e l’illusione della crescita”. Che riforme di impronta liberista generino risultati deludenti non è sorprendente in quanto volte a deprimere i salari, la domanda aggregata e conseguentemente la spinta delle imprese a innovare, o semplicemente perché attribuiscono i mali dell’economia italiana a feticci come il carico burocratico, pur importanti, ma non decisivi. Sorprende però la credulità con cui vengono sistematicamente accolte le stime di ripresa quando anche l’Ocse ammette il sistematico errore di sopravalutazione commesso negli anni recenti.
In questo quadro nessuno prende troppo sul serio la prescrizione del Fiscal Compact della riduzione dal 2015 del rapporto fra debito pubblico e Pil a colpi di un ventesimo all’anno della quota eccedente il 60%. Al recente convegno sulle politiche europee promosso dal Network per il socialismo europeo e da Laboratorio politico, l’abbiamo paragonato come credibilità al Tanko degli indipendentisti veneti! Diversi economisti hanno denunciato l’insostenibilità sociale degli avanzi primari (al netto della spesa per interessi) necessari per realizzare quella prescrizione anche assumendo tassi di crescita positivi.  La situazione potrebbe però essere persino peggiore una volta che si tenga più pienamente conto degli effetti negativi di quegli avanzi sulla crescita. Un economista rigoroso come Mario Nuti ha al riguardo dimostrato come con moltiplicatori fiscali e rapporto debito/Pil entrambi relativamente elevati, politiche di consolidamento fiscale avrebbero l’effetto di peggiorare il rapporto debito/Pil. Questo proprio perché gli effetti negativi sul Pil (il denominatore) sono maggiori di quelli “positivi” sul debito (il numeratore), come peraltro ha dimostrato l’esperienza italiana di questi anni.  Il Fiscal Compact non è dunque solo socialmente insostenibile, ma è senza senso dal punto di vista dell’obiettivo che si pone. Bisogna considerare però che, pure se inapplicato o differito, esso rimarrebbe come un monito a mantenere comunque le politiche di severa austerità.
 Reagendo a questo quadro, politici ed economisti di sinistra hanno con qualche timidezza chiesto che il paese violi gli obiettivi di bilancio, come peraltro viene concesso a Francia e Spagna. L’intera politica di bilancio europea andrebbe in realtà capovolta vincolando nel breve periodo i saldi alla ripresa della crescita e non a “stupide” regole, come le definì Prodi. In luogo del fiscal compact, la politica di bilancio dovrebbe essere poi ancorata all’obiettivo di medio periodo della stabilizzazione del rapporto debito/Pil, un’idea ispirata da Luigi Pasinetti, ripresa dall’Appello degli economisti del 2006 e poi dal Documento degli economisti del 2011. Accompagnato da un’azione efficace della BCE intesa a far scendere di più i tassi sul debito pubblico dei paesi “periferici” o a piani volti a ristrutturare i debiti pubblici, disavanzi pubblici primari e dunque politiche espansive, sarebbero compatibili con la stabilizzazione del suddetto rapporto. Sono idee ragionevoli che l’Italia dovrebbe far proprie nel semestre di presidenza dell’UE.
Il tessuto sociale del paese ha retto finora con crescente fatica  per la resilienza di milioni di redditi da lavoro dipendente e autonomo e pensioni che sostengono milioni di disoccupati, inoccupati, esodati e cassintegrati e relative famiglie di ogni fascia di età. Ma questa base reddituale si andrà col tempo ulteriormente erodendo proprio per effetto delle politiche di “consolidamento fiscale”. La sinistra deve rompere ogni connivenza con queste politiche prima di esserne travolta. Di questo si dovrebbe parlare in vista delle prossime europee.
l'Unità, 7 maggio 2014

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