sabato 28 settembre 2013

L’Europa è sfinita - recensione a D'Antoni e Mazzocchi

Pubblichiamo in versione integrale nostra recensione uscita il 24/9/13 su il manifesto. La versione pubblicata è un po' più corta (il che spesso la migliora!), e chi vuole leggersi quella è qui. Il titolo redazionale è incomprensibile, dunque qui lascio il mio.

L’Europa è sfinita
Sergio Cesaratto
Il libro di Massimo D’Antoni e Ronny Mazzocchi “L’Europa non è finita” (Editori internazionali riuniti, 2013, con una postfazione di S.Fassina) riflette tutte le contraddizioni dell’europeismo volenteroso della sinistra del PD. Esso è, infatti, costretto fra un’analisi della crisi (grosso modo) condivisibile e una visione speranzosa della sua evoluzione che manca di tenere in sufficiente conto il conflitto fra gli interessi nazionali che caratterizza l’Europa per quello che è rispetto a quello che si vorrebbe fosse. Nello spiegare la crisi dell’euro, troppo peso viene al riguardo attribuito alla condivisione da parte delle élite europee della visione “neo-liberista” del funzionamento dell’economia, visione che avrebbe permeato la costruzione della moneta unica: “La crisi deriva …da un difetto di disegno dell’Unione, che rispondeva a una visione inadeguata del funzionamento dell’economia, figlia di una precisa stagione ideologica” (p. 259). A onor del vero, gli autori non cadono nel mantra del “neo-liberismo” ripetuto a ogni piè sospinto e puntualizzano che la sola ideologia e quello che potremmo chiamare lo spirito del tempo non sono tuttavia [spiegazioni] sufficienti” e che “ i passaggi cruciali del processo di unificazione europea andrebbero ricondotti nella sfera della volontà politica ovvero dei rapporti di forza tra governi” (p.63). Più avanti (pp. 228-231) gli autori toccano la “questione tedesca” alludendo – forse senza la dovuta energia – alla profonda incompatibilità fra il modello mercantilista che il capitalismo tedesco si è scelto, e un’unificazione monetaria con un segno progressista (mentre ai tedeschi va benissimo lo stato di cose presente). Nonostante questo quadro negativo, il leitmotiv del volume è, tuttavia, che “rilanciare il progetto di integrazione europea e salvare il modello sociale europeo sono le due facce della stessa medaglia” (p. 29). Ma alla luce dell’assenza di forze in direzione di questo rilancio, questa rischia di apparire un’affermazione alquanto retorica, simile alle stucchevoli perorazioni del Journal of Social Europe più che a una analisi realistica. “Il progetto di integrazione monetaria europea e la distruzione dello stato sociale in gran parte del continente sono le due facce della stessa medaglia”, se la vogliamo dir tutta.

lunedì 16 settembre 2013

Intervista sull'euro


Pubblichiamo un'intervista sul portale economia.Leonardo.it, parte prima e parte seconda.Ringrazio Roberto Bosio.

Uscire dall’euro: senza unione politica non c’è unione monetaria, l’intervista a Sergio Cesaratto

16 settembre, 2013
sergio cesaratto

martedì 10 settembre 2013

The Great Pension Funds Swindle



Pubblichiamo articolo uscito su il manifesto (10/9/13) sul tema delle pensioni.
Rinazionalizzare le pensioni conviene
Sergio Cesaratto
Non c'è due senza tre. Dopo Argentina e Ungheria, anche la Polonia governata da un liberista ha rinazionalizzato il sistema pensionistico. Come raccontano le cronache di questi giorni, il governo di Varsavia ha obbligato i fondi pensione a trasferire forzatamente gli investimenti in titoli di stato del valore di 37 miliardi di dollari nelle mani del Tesoro, diminuendo di botto il debito pubblico di un valore pari all’8% del Pil. Con la debacle del sistema cileno di qualche anno fa - che però è una storia un po' diversa - la disfatta dell'offensiva contro la previdenza pubblica guidata una ventina d'anni fa dalla World Bank è completa. E pour cause. Quello che i primi tre paesi fecero ai tempi delle riforme fu semplicemente di trasferire la gestione del sistema pensionistico pubblico ai privati sicché, mentre il sistema restava fondamentalmente il medesimo, i suoi costi di gestione si accrescevano per la minore efficienza della gestione privata e dei profitti che questa intende lucrare. Per capire facciamo un passo indietro. E’ semplicissimo.
Nel sistema pensionistico pubblico gli enti mutualistici (come l'INPS per capirci) prelevano i contributi dei lavoratori (supponiamo 100 euro) e ne restituiscono altrettanti ai pensionati correnti (diciamo 98, con 2 euro che sono i costi di gestione del sistema pubblico che è molto più efficiente del sistema privato). I lavoratori sono consenzienti perché contribuendo oggi acquisiscono il diritto alla pensione una volta anziani.
Con le privatizzazioni operate nei tre paesi i contributi (100 euro nell’esempio) venivano devoluti ai fondi pensione i quali li investivano nel mercato finanziario. La promessa era che le pensioni future non sarebbero state più erogate dallo stato, bensì dal riscatto dei fondi investiti incluso il rendimento realizzato. Ma è proprio così? Intanto domandiamoci, gli enti mutualistici come fanno a pagare le pensioni correnti una volta che vengano meno i contributi (se questi vanno ai fondi pensione)? Ciò che accade è che il Tesoro emette titoli di Stato (per 100 euro) per pagare le pensioni correnti. E chi li compra? I fondi pensione coi contributi dei lavoratori. Insomma, prima della riforma i lavoratori davano 100 allo Stato e questo ci pagava le pensioni. Ora danno 100 ai fondi pensione che ci acquistano 100 di titoli di stato con cui quest’ultimo ci paga le pensioni. E’ cambiato qualcosa? Nella sostanza no: i 100 di contributi servono sempre a pagare le pensioni correnti - com’è nella logica di qualunque sistema pensionistico in cui chi lavora sostiene gli anziani - solo che fanno un giro più tortuoso. E in questo giro c’è chi ci perde e chi ci guadagna? Vediamo.
Lo Stato deve ora pagare degli interesse sui titoli che emette. Per esempio, a un tasso del 5% per erogare 100 di pensioni deve pagare 5 euro di interessi all’anno su 100 di titoli emessi. Chi si intasca gli interessi? Supponiamo che i gestori dei fondi attribuiscano il rendimento dei titoli ai lavoratori, è questo un guadagno netto per loro? No, perché nella veste di lavoratori o di pensionati (e nella vita capitano entrambi i ruoli) lo Stato chiederà loro 5 euro di imposte di più all’anno. Inoltre è molto probabile che dei 100 di contributi investiti in titoli di stato, i fondi pensione ne restituiscano ai lavoratori quando andranno in pensione solo, diciamo, 80 o 90 euro, intascando il resto a copertura delle spese di gestione, marketing e profitti. C’è solo un vincitore, i fondi pensione che fanno la cresta.
Questi fatti erano chiarissimi già a fine anni 1990 a economisti come Stiglitz e altri. Si parva licet, chi scrive ha pubblicato una sfilza di contributi internazionali in merito. Meno chiari erano a presunti tecnici nostrani, Elsa Fornero in testa, una studiosa vicina a potenti interessi finanziari (ma incompresi anche da esperti di pensioni vicini alla sinistra radicale).
Gli economisti della World Bank, la principale paladina delle riforme, non erano così sciocchi da non vedere che si trattava di un gioco delle tre carte (un “shell game” lo definì un noto economista americano). Ma avevano un argomento di riserva. Con la riforma il debito pubblico cresce perché, come s’è visto, lo Stato si indebita per pagare le pensioni correnti. Nella logica del tanto peggio tanto meglio cui la World Bank faceva l’occhiolino, ciò avrebbe aperto la strada a riforme volte a ridurre altre voci della spesa sociale. Ma allora dov’è la sorpresa se a distanza di anni i tre governi hanno deciso di sgonfiare il loro debito pubblico inflazionato da una riforma balorda? "Il fatto eclatante - nota lo sconcertato Vittorio Da Rold su Il Sole 6/9 - è che i fondi pensione non saranno minimamente risarciti.” Ma il giornalista si dà da sé la ragione: il governo polacco ritiene, infatti, “che i bond siano stati acquistati con i contributi dei dipendenti che altrimenti sarebbero andati al governo." Il governo si riprende cioè titoli che appartengono ai lavoratori, e li cancella dal proprio debito, garantendo a questi ultimi le pensioni future, probabilmente più certe ed elevate, visto che chi ci rimette sono solo i fondi pensione che dovranno smettere di fare la cresta alle spalle di stato, lavoratori e pensionati.