lunedì 3 ottobre 2011

Intervento a un convegno della sinistra

Pubblichiamo oggi un nostro intervento a un incontro di una forza politica del centro-sinistra – non importa dire quale. Sebbene nell’intervento si ripetono cose note ai lettori, ho inserito aggiornamenti sull’evoluzione del quadro europeo e i riferimenti alla stampa internazionale a oggi lunedì 3 ottobre.
Quello che la sinistra dovrebbe dire sull'Europa
Sergio Cesaratto
1. Manovre non solo inique, ma inutili; peggio, dannose.
Quello che colpisce del dibattito politico italiano è l’assenza della problematica europea. Non v’è dubbio che l’Unione Monetaria Europea (EMU) abbia inciso negativamente sull’economia del paese in seguito sia alla perdita di competitività che, con la rinuncia alla banca centrale sovrana, in termini di sostenibilità del debito pubblico (insostenibile ai tassi attuali). La sinistra italiana ha introiettato una sorta di senso di colpa per cui con un debito pubblico al 120% del PIL il paese non ha diritto a una voce in  capitolo in Europa. Condivisa dalla massima autorità istituzionale del paese, tale preoccupazione porta a ritenere che solo presentando le credenziali giuste sui conti pubblici il paese potrà esigere qualcosa dall’Europa. E’ una prospettiva sbagliata dal punto di vista economico.

In relativamente pochi ci siamo trovati nei mesi scorsi a denunciare l’inutilità della manovra - non tanto la sua iniquità su cui i più hanno insistito. La sinistra ritiene che col nostro debito non possiamo dir nulla: non è vero; il debito pubblico diventa un problema se la banca centrale non agisce da banca sovrana, e la BCE per l’irresponsabilità, o le proprie presunte convenienze, della Germania e satelliti non lo fa,  per cui l’insostenibilità del debito italiano ai tassi attuali è in buona misura causata dall’Europa. Il debito anche diventa un problema se non si cresce, ma senza un opportuno contesto europeo crescere diventa difficile. Si deve avere il coraggio di dirlo. Anche i documenti del PD sono stati sinora assai reticenti su questa problematica. Lungi da noi naturalmente affermare che è tutta responsabilità europea e che nulla nel paese si deve correggere. Il berlusconismo ha devastato un paese che di problemi ne aveva già molti. Ma con le attuali politiche europee esso è avviato a un degrado che neppure Berlusconi è stato in grado di arrecare, degrado che passerà attraverso le politiche deflazionistiche o, a fronte del loro fallimento, attraverso il crollo dell’Euro. Per questo l’urgenza e la priorità di discutere del contesto europeo per primo. Dobbiamo dirlo chiaro: nel quadro europeo attuale una sinistra di governo può far poco e, come un collega economista mi ha suggerito, farebbe bene a non trovarsi nel palazzo quando la situazione esploderà.
2. Ma facciamo un passo indietro.
La crisi europea consiste, grosso modo, di una periferia fortemente indebitata coi paesi centrali. La periferia ha al contempo perso competitività - paradossalmente proprio perché è cresciuta di più accendendo debiti (privati tranne che nel caso della Grecia), ciò ha generato più inflazione che nei paesi forti, minandone la competitività. I paesi forti hanno approfittato della situazione nel periodo 1999-2008 esportando massicciamente nella periferia. La storia italiana è diversa. Il debito italiano matura negli anni 1970-80 quando la spesa sociale viene adeguata ai livelli europei ma non le entrate fiscali. L’aumento dei tassi di interesse internazionali, l’ingresso nello SME e il “divorzio” fra Tesoro e Banca Centrale, la perdurante evasione fiscale determinarono l’esplosione della spesa per interessi e l’aumento del debito. Quando, dagli anni 1990, la pressione fiscale è stata adeguata era troppo tardi, e sebbene lo Stato italiano avesse realizzato un avanzo primario, i buoi erano già fuggiti. Qualunque livello di debito sul PIL è tuttavia sostenibile se i tassi di interesse reali si mantengono inferiori alla crescita del PIL.
à In sintesi, la sostenibilità del debito italiano sarebbe dunque assicurata se la BCE garantisse tassi sufficientemente bassi e se la crescita riprendesse – la prima misura essendo premessa imprescindibile della ripresa.
3. Cosa ha fatto l’Europa sinora?
In termini semplici, dal maggio 2010 essa ha stanziato fondi europei (principalmente l’European Financial Stability Fund -EFSF) a sostegno della crisi debitoria dei piccoli paesi periferici (i GIP). In cambio ha imposto a quei paesi misure di tagli di bilancio che ne hanno minato la crescita e la stabilità sociale (meno in Irlanda che ha un forte settore esportatore dovuto alle MNE) e da ultimo hanno ulteriormente minato la sostenibilità del loro debito. Nel giugno 2011 il contagio si è esteso a Italia e Spagna. Le scarse prospettive di crescita dell’Italia dell’Italia, ma anche la scarsa credibilità del governo, sono probabilmente alla base del crollo di fiducia sul debito sovrano italiano. Se tale fiducia si è incrinata in vista di un lento aumento del rapporto debito/PIL, essa è crollata quando l’aumento degli spread, ora a 400 punti base, ne ha fatto prevedere un aumento più rapido.
L’Europa ha ritenuto di poter fronteggiare la crisi del debito italiano e spagnolo con gli stessi metodi con cui ha fronteggiato quella dei piccoli GIP. Il problema dei fondi europei è che a mettere i quattrini da utilizzare in caso di crisi di solvibilità (ciò accade quando uno stato non riesce a collocare una tranche di titoli  necessaria a restituire una tranche scaduta) sono i medesimi paesi indebitati: e come se Spagna e Italia dovessero salvarsi dall’affogamento tirandosi da sole per la collotta. La credibilità di questa politica, riaffermata dall’Europa lo scorso luglio, è zero. Eppure molti parlamenti nazionali nicchiano ad approvare tali, inutili, misure. In un certo senso han ragione: i paesi forti perderebbero dei soldi senza risolver niente. Purtroppo però non pensano a soluzioni più avanzate. Queste implicano un intervento risoluto della BCE.
Da ridimensionare è invece l’idea degli Eurobonds , di cui un po’ a sinistra ci si è sciacquati la bocca ma che, a ben vedere, è una proposta debole. La garanzia ultima di tali titoli sarebbe infatti sulla Germania, una garanzia largamente insufficiente. Le agenzie di rating hanno già dichiarato che li classificherebbero piuttosto male, e in effetti una manciata di titoli emessa dall’EFSF era prezzata settimane fa con tassi 100 punti base superiori ai Bund tedeschi.
E’ vero che la BCE è nel frattempo intervenuta, prima nei riguardi dei GIP, poi da luglio in favore di Italia e Spagna (in cambio delle manovre), ma lo ha fatto in maniera timida e irresoluta, appena impedendo che gli spread italiani e spagnoli esplodessero e imponendo tagli di bilancio, come nella famigerata lettera al governo italiano. Se fosse intervenuta risolutamente garantendo in maniera illimitata i debiti sovrani la crisi sarebbe rapidamente rientrata e la BCE non avrebbe dovuto acquistare neppure un titolo. Questo abbiamo detto in un documento firmato da varie associazioni della sinistra lo scorso marzo. Ora lo sostengono molti, da ultimo Stefano Fassina su L’Unità del 28 settembre, e ciò è positivo.
4. Il “leveraging” dell’EFSF
Ma poiché è di questo che si parla, vediamo il cosidetto piano Geithner che egli propose in Polonia due settimane fa – ricevendo risposte piccate dai paesi europei centrali – e la scorsa settimana al vertice IMF a Washington dove la pressione mondiale, di Obama e un tono definito “implorante” a una risposta adeguata sembrava aver sortito qualche effetto. L’idea del piano Geithner è di far leva sull’EFSF in modo da moltiplicarne la potenza di fuoco senza gravare sui bilanci dei paesi forti. Esistono varie versioni (v. qui e qui), due principali.
(a) Una è una variante dell’idea degli Eurobonds. L’idea è che l’EFSF costituisca da capitale per una sorta di banca europea che poi emetta titoli, tipo Eurobonds, con cui sostenere i titoli dei paesi periferici. Ci sono vari problemi (v. esempio Munchau sul FT del 3 ottobre): (i) i fondi EFSF sono messi in buona misura dai medesimi paesi indebitati, un circolo vizioso come detto sopra, un capitale che non tranquillizza nessuno; (ii) perché i mercati dovrebbero comprare titoli che vanno poi a finanziare titoli assai fragili a presso una banca che ha un capitale fragile? Da ultimo solo la garanzia della BCE come acquirente di ultima istanza dei titoli  può far funzionare il sistema. Ma allora tanto vale ricorrere direttamente alla BCE: la seconda proposta (b) è infatti che i fondi ex EFSF rimpolpino il capitale della BCE e questa garantisca un volume potenziale di fuoco dell’ordine di uno o due trilioni, tale cioè da poter acquistare tutto il debito dei paesi periferici. Naturalmente questa è una soluzione per i cuori e le mente pavide: la BCE non ha bisogno di nessun capitale per assicurare quel volume di fuoco, essa stampa tutta la moneta che desidera. E, ripetiamo, sarebbe sufficiente che dichiari di farlo se necessario perché i mercati e spread si riducano drammaticamente – in fondo neppure i mercati desiderano che il sistema finanziario mondiale crolli (tant’è che alle voci del “leveraging” del EFSF i . Questa proposta ha ricevuto la benedizione di Bini Smaghi - Draghi non ha parlato questi giorni, ma si può presumere che LBS abbia parlato per lui. Aggiornamento: infatti Eurointelligence del 3 ottobre ci informa che Draghi sembrerebbe favorevole, lo svantaggerà di fronte ai mass media tedeschi che è un italiano.
à Si dovrebbe appoggiare la proposta Geithner/Bini Smaghi  di usare i fondi europei EFSF come leva per mobilitare il volume di fuoco della BCE a garanzia illimitata sui titoli pubblici sovrani.
5. I tedeschi
La sostenibilità del debito italiano ha dunque a che fare con ciò che fa o non fa la BCE e non con delle manovre che mortificano il PIL e ci allontanano dalla soluzione. Ha anche a che fare con il funzionamento dell’Unione Monetaria Europea in cui chi dovrebbe aver fatto da locomotore ha fatto da vagone e viceversa.
Abbiamo sperato, all’inizio di questa settimana, che sotto l’enorme pressione americana e sebbene con lancinante lentezza, il gruppo dirigente tedesco stesse capendo qualcosa. Purtroppo il dibattito politico tedesco (v. qui) dà il senso della scarsa consapevolezza, in quel paese, della gravità del momento. Anche la SPD, pur appoggiando l’approvazione delle misure europee dello scorso luglio – unanimemente definite inutili – pare sia contraria all’utilizzo dell’EFSF come “leva finanziaria”. Le cronache ci raccontano che per i parlamentari tedeschi l’EFSF sarà l’ultimo sostegno che la Germania dà all’Europa periferica - le banche tedesche e francesi tremeranno, visto che il sostegno va da ultimo ai loro crediti. Eurointelligence ci avverte infatti che dietro le quinte le trattative per moltiplicare il potere di fuoco del’EFSF continuano. Così anche il WSJ. Si tratta però di vedere in che forma il “leveraging” potrebbe essere adottato, se mai lo sarà.
Non dobbiamo tacere: senza una azione rapida ed efficace si manda a picco l’Italia e l’Europa con essa. L’Europa andrebbe verso una drammatica rottura, un declino economico collettivo, conflitti, emarginazione in un mondo in cui vi sono nuove potenze emergenti.
Del moralismo tedesco e di quello della sinistra italiana si muore. E’ Keynes ad averci insegnato che il moralismo in economia è nefasto. La SPD deve essere messa alle corde.
6. Neoliberismo o neomercantilismo?
Stiamo però attenti a una cosa. E’ tipico di molta sinistra ed economisti di sinistra prendersela con un generico neo-liberismo visto come causa di tutto. Come insegnavano il grande economista tedesco Friedrich List (il teorico del nazionalismo economico) e Joan Robinson, l’allieva di Keynes, il liberismo è uno specchietto per le allodole, la verità per comprendere la politica economica internazionale è nel nazionalismo economico, nel mercantilismo che ciascun paese persegue (il termine “neoliberismo” andrebbe usato con più parsimonia nel lessico di una sinistra materialista e che si rifaccia al realismo politico, a mio avviso). Quello che abbiano di fronte in Europa è una battaglia fra interessi nazionali o meglio, fra gli interessi delle classi dirigenti nazionali. La posizione tedesca contro una politica più attiva della BCE va intesa dunque come il timore di perdere il ruolo che la banca europea aveva ereditato dalla Bundesbank di cane da guardia dei salari tedeschi, da ultimo della disciplina che è alla base del modello mercantilista tedesco. Se la BCE si mette ad agire come genuina banca centrale europea, farebbe venir meno uno dei pilastri del modello tedesco – il che sarebbe un bene -, ma ciò spiega bene la feroce opposizione tedesca a ciò che, altrimenti, apparirebbe come irrazionale. Naturalmente in una certa misura è irrazionale, se tale protervia determinasse il crollo dell’Europa e oltre. Non dimentichiamoci inoltre che SPD e sindacati tedeschi sono in buona misura conniventi al modello mercantilista tedesco - rilanciato agli albori dell’Euro proprio da Schroeder, questo rende difficile il dialogo persino con loro, ma dobbiamo provarci, almeno per sapere con chi abbiamo e avremo a che fare.
7. Tamponare la crisi dei debiti sovrani sarebbe in realtà la cosa più facile.
C’è poi il problema, quello assai più complicato, su come riequilibrare la competitività fra i paesi europei. Come già osservato una diversa BCE che agisse da banca sovrana nei riguardi dei bilanci pubblici europei già incrinerebbe uno dei pilastri del modello tedesco – da banca che controlla i salari tedeschi a tutela della sostenibilità dei debiti sovrani e sostegno alla domanda aggregata. Anche qui la Germania e i suoi satelliti devono comprendere che ora sono in un’unione monetaria: o dichiarano, loro, di volerla rompere, oppure devono accettare di mutarne le regole di funzionamento. Sinora l’unione monetaria ha premiato i paesi mercantilisti che han prestato soldi alla periferia, finanziando nei fatti le proprie esportazioni verso quei paesi, e condotto alla situazione attuale.
C’é dunque necessità di una nuova BCE che abbia la crescita e non solo l’inflazione come obiettivo, e il coordinamento delle politiche di bilancio con l’obiettivo della piena occupazione;[1] sostegno ai salari nominali nei paesi forti con l’abbandono delle politiche neo-mercantiliste di moderazione salariale. Questa è la parte più difficile. Necessità dunque di colloqui con SPD (e PSF) per capire le loro intenzioni. Non dobbiamo apparire anti-Europeisti, ma più europeisti di loro, lo siamo infatti. Vanno studiati gli effetti della rottura dell’Euro, persino la sua eventuale convenienza in luogo di una morte lenta manovra dopo manovra. La mia personale impressione è però che la rottura sarebbe un evento catastrofico, oltre i confini europei. Diciamo una caduta del PIL dell’ordine delle decine di punti % almeno all’inizio, da cui lentamente se ne esce, ma con una Europa distrutta, rancorosa e che non conta più nulla. Certo la posizione tedesca non lascia grandi speranze.
Ma dobbiamo allora avere l’ottimismo della volontà e batterci affinché l’Europa possa mutare. Per questo serve un governo italiano autorevole (ha ragione chi dice che Berlusconi vale 100 punti di spread, ma ne rimangono 300). Non autorevole nell’attuare i tagli di bilancio e dei diritti, perché questo vuol dire “autorevole” nell’opinione prevalente questo paese. Non i Mario Monti. Autorevole vuol dire che ha le idee chiare sull’Europa, e anche sulle cose giuste da fare da noi, e su questo brevemente chiudo.
8. Come detto all’inizio, lungi addossare tutte le colpe sull’Europa: ci sono onerosi compiti da svolgere a casa nostra: ristrutturare, non tagliare, la spesa pubblica (inclusi i costi politica), lotta all’evasione, colpire grandi patrimoni e utilizzare le risorse per ridurre prelievo su salari e sostenere istruzione e consumi collettivi; politica industriale e ambiente; legalità. Su questo rimandiamo a interventi successivi e al lavoro commissione.
Vorrei qui chiudere evocando la necessità che nel paese emerga una forza politica di sinistra che riesca a coniugare la speranza e l’idealità con la concretezza dell’agire. Che sia radicale e riformista allo stesso tempo (riformista nel senso di Sylos Labini o Caffè). Per questo va superata la diffidenza storica dei militanti della sinistra verso i temi economici, visti o come troppo difficili – per cui vanno lasciati agli addetti ai lavori – o come in fondo conniventi con il mercato e lo sfruttamento dell’umanità e dell’ambiente.  Il tema dei diritti civili (naturalmente imprescindibili) o un generico richiamo a “nuovi stili di vita” (naturalmente auspicabili) diventano così il terreno esclusivo per molti militanti. Questo è sbagliato. L’economia è terreno di scelte politiche e di lotta, non di astrusi tecnicismi, e non esiste un’unica teoria economica. Una sinistra che abbia ben chiare le proprie idealità deve anche, se vuole seriamente perseguirle, sporcarsi le mani con i temi economici, rivolgersi alle analisi non conformiste, e agire di conseguenza ricordando che dagli economisti può provenire un quadro della situazione, delle possibilità (o impossibilità): poi la parola è alla politica e al movimento. Non facciamoci trovare di nuovo impreparati.



[1] Attenzione dunque, non un nuovo guardiano europeo dei conti pubblici.

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